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giovedì 30 giugno 2016

La Norvegia si arma contro la Russia.

Il dispiegamento di una nuova compagnia di ranger al confine con la Federazione Russa rientra nel vasto piano di riarmo con cui la Norvegia intende preparare il proprio apparato militare a fronteggiare un contesto regionale che il primo ministro Solberg vede in via di deterioramento.
Nel caso di un improbabile conflitto con Mosca, il rafforzamento della guarnigione di Sør-Varanger, chiamata a difendere i 200 chilometri di frontiera terrestre con la Russia, potrebbe non bastare per sigillare completamente il confine: piuttosto, il suo scopo è di ritardare le eventuali operazioni nemiche e chiarire al proprio temuto vicino la risoluzione con cui Oslo intende approcciarsi al nuovo contesto strategico.
Se il parlamento approverà il piano (sarebbe il terzo incremento nel bilancio della Difesa consecutivo), nei prossimi vent’anni la Norvegia arriverà a spendere quasi 18 miliardi di euro: il più vasto sforzo di riarmo messo in campo nel paese dalla fine della guerra fredda.
L’esecutivo Solberg intende migliorare la velocità di reazione delle Forze armate alle crisi e potenziare il proprio dispositivo aeronavale tramite l’acquisto di cacciabombardieri F-35, aerei per il pattugliamento marittimo P-3C Orion e nuovi sottomarini.
In quest’ultimo campo potrebbe contare sulla collaborazione della Germania, con cui la Norvegia intrattiene importanti relazioni nel campo della costruzione navale. Gli attuali 6 sottomarini di classe-Ula in forza nella Marina norvegese, ad esempio, sono il frutto del design tedesco mentre i primi 4 sottomarini classe-212 A della Deutsche Marine montavano un sistema di combattimento norvegese. ThyssenKrupp Marine Systems è in lizza assieme ad altri produttori internazionali per costruire la futura classe di sottomarini diesel della Norvegia nello stesso frangente in cui Berlino sta considerando l’acquisto di nuovi battelli.
I due paesi potrebbero convergere sullo stesso progetto – il ministero della Difesa tedesco ha già dato il proprio benestare, a patto che la costruzione avvenga in Germania. Questa soluzione garantirebbe a Oslo alcuni fra i sottomarini convenzionali più avanzati al mondo e a Berlino di salvaguardare l’attività dei propri cantieri navali e di centrare un obiettivo strategico della dirigenza tedesca.
Nuovi e più avanzati sottomarini sono cruciali per chi deve fare i conti con forze subacquee capaci come quelle che schiera fra l’Artico e l’Atlantico settentrionale la Russia, soprattutto se la loro attività è tornata ai livelli della guerra fredda. Ma non solo.
Per contrastare in mare il dispositivo militare di Mosca, la Marina norvegese ha appena immesso in servizio una nuova nave spia chiamata a incrociare nelle acque a Nord della penisola scandinava per monitorare gli spostamenti dei mezzi subacquei russi.
Dal palco della ventottesima edizione della Undersea Defence Technology (evento internazionale dedicato alla difesa e sicurezza subacquea che quest’anno si è svolto proprio in Norvegia), il ministro della Difesa norvegese evidenziava la necessità di rivitalizzare il concetto di difesa in mare della Nato, invocando al contempo un aumento della presenza aeronavale alleata proprio nei mari dell’Europa settentrionale.
Per approfondirePartita al polo

mercoledì 29 giugno 2016

Gli ignoranti hanno diritto di voto ?

Il Washington Post ha ospitato questa proposta – raro caso in cui la abusata definizione di “provocazione” ha davvero senso – di David Harsanyi, condirettore della rivista online The Federalist e autore di frequenti posizioni originali, con attenzioni particolari alla crisi dei sistemi democratici. Il suo articolo ha ricevuto molte reazioni di protesta dai lettori, ma tratta un tema che è diventato molto presente nei paesi occidentali negli ultimi anni, quello del calo di corrispondenza tra i principi democratici e la qualità dei governi eletti.
Mai come oggi tantissime persone assai poco informate prendono decisioni che hanno ripercussioni su tutti quanti. Basta studiare la pochezza dell’attuale campagna presidenziale americana per capire come il problema più urgente nella politica degli Stati Uniti non sia l’influenza delle grandi aziende, dei sindacati, dei media e nemmeno quella dei soldi. Il problema principale siete voi, gli elettori americani. Eliminando i milioni di elettori irresponsabili che non si prendono il disturbo di imparare i meccanismi più basilari della Costituzione, o le proposte e la storia del loro candidato preferito, forse potremmo riuscire ad attenuare le conseguenze della sconsideratezza del loro voto.
Non dico che dovremmo erigere delle barriere fisiche per limitare l’accesso al voto. Continuiamo pure a costruire seggi, ad assumere altre persone per lavorarci, a facilitare il processo di registrazione, a spedire più schede elettorali ai cittadini anziani e a produrre più annunci pubblicitari per incoraggiare il voto e a implorare i giovani apatici di adempiere al loro dovere civico. Allo stesso tempo, però, ricordiamoci che andare a votare per il candidato che ha fatto gli spot elettorali che ci sono piaciuti di più è uno dei compiti più sopravvalutati in una democrazia. Se non avete idea di cosa stia succedendo, anche sottrarre noialtri alla vostra ignoranza è un dovere civico. Purtroppo non ci possiamo fidare di voi. Se il voto è un rito consacrato della democrazia, come spesso sostengono i progressisti, è giusto che la società abbia delle pretese minime su chi vi partecipa; e se la cittadinanza è un valore sacro, come sostengono i conservatori, allora si può pretendere da un potenziale elettore lo stesso livello di informazione di un potenziale cittadino. Introduciamo un test per gli elettori: l’esame di educazione civica usato per ottenere la cittadinanza andrebbe benissimo. Quanti dei rumorosi sostenitori dei due principali candidati alle presidenziali americane supererebbero l’esame? Questi sono alcuni dei quesiti dell’esame di cittadinanza, che si dividono tra facili e facili in modo imbarazzante:

Se il presidente e il vice presidente non possono più rimanere in carica, chi diventa presidente?
Cita tre dei tredici stati originari degli Stati Uniti
Cita un diritto o una libertà sancita dal Primo Emendamento.
Cos’è la libertà di culto?
Sono moderatamente fiducioso del fatto che almeno la maggioranza dell’elettorato sarebbe in grado di superare il test, anche se non potrei dire altrettanto della maggioranza dei candidati alla presidenza. Di sicuro, dovrebbe essere un gioco da ragazzi per quei cittadini che sono così coinvolti nella campagna elettorale dai tappezzare le loro auto di adesivi e partecipare ai comizi dei loro candidati preferiti.
Ma forse sono troppo ottimista. Quando qualche anno fa Newsweek aveva chiesto a mille elettori americani di fare l’esame per la cittadinanza, circa il 30 per cento non era stato in grado di dire chi fosse il vicepresidente degli Stati Uniti; oltre il 60 per cento non conosceva la durata del mandato di un senatore; il 43 per cento non sapeva che i primi dieci emendamenti della Costituzione americana sono conosciuti come la Dichiarazione dei Diritti; solo il 30 per cento sapeva che la Costituzione è la legge suprema degli Stati Uniti. Grazie a un altro studio, condotto dall’Annenberg Public Policy Center, abbiamo scoperto che solo il 36 per cento del campione intervistato è stato capace di citare tutti e tre i poteri del governo americano. Queste sono le persone che eleggono chi definisce la struttura fondamentale dell’ordinamento giudiziario degli Stati Uniti, e spesso le nostre vite.
A dirla tutta l’elettorato probabilmente non è meno ignorante oggi di quanto lo fosse 50 o 100 anni fa. La differenza è che oggi il nostro accesso alle informazioni è illimitato. Come scrisse James Madison, il quarto presidente della storia degli Stati Uniti: «Un governo popolare, quando il popolo non sia informato o non disponga dei mezzi per acquisire informazioni, può essere solo il preludio a una farsa o a una tragedia, e forse a entrambe». Informarsi sulle caratteristiche fondamentali della nostra repubblica e sulle posizioni dei candidati, poi, è una questione di qualche secondo, letteralmente. Se rinunciate al potere dell’informazione non siete nella posizione di poter dire al resto di noi come vivere le nostre vite. Non votate.
Alcuni di voi mi accuseranno di fare dell’ottuso elitismo: ma è il contrario. A differenza delle molte persone che dipendono dagli elettori ignoranti per esercitare e salvaguardare il proprio potere, mi rifiuto di credere che la classe lavoratrice o i cittadini meno abbienti siano meno capaci di capire il significato della Costituzione o i tratti principali del sistema di governo rispetto allo sprezzante un per cento della popolazione. Ne sono convinto nonostante la scuola pubblica spesso non sia in grado di insegnare agli studenti le basi dell’educazione civica: è ancora una nostra responsabilità, come elettori.

Ovviamente non dobbiamo dimenticarci di brutte storie come le tasse elettorali e gli altri metodi discriminatori usati dagli americani per negare ai cittadini neri il diritto di voto. Qualsiasi tentativo di migliorare la qualità dell’elettorato dovrebbe fare in modo che il voto venga inibito alle persone ignoranti di ogni etnia, credo, genere, orientamento sessuale e contesto socioeconomico. Per il bene delle nostre istituzioni democratiche.
David Harsanyi, Devono votare anche gli ignoranti ?, "Il Post", 25-05-16.

lunedì 27 giugno 2016

Migliorare l'ambiente di lavoro per ottenere risultati più brillanti.

Quando si tratta di benessere sul posto di lavoro, ognuno ha il suo punto di vista. E se le opinioni cambiano di collega in collega, quando si passa alla percezione dell’ambiente da parte di dipendenti e manager il quadro cambia ancora. La compagnia Oxford Economics, per esempio, ha condotto un’indagine (When the walls come down) su entrambe le categorie di lavoratori per scoprire, tra i vari aspetti, come si lavora in un ufficio open-space. Le differenze balzano subito all’occhio: solo il 35% dei dirigenti pensa che il rumore possa ridurre la soddisfazione e la produttività dei dipendenti, ma è il 53% dei dipendenti che ritiene di soffrirne le conseguenze. Il 63% dei dirigenti pensa che i propri dipendenti abbiano le capacità per filtrare le distrazioni sul lavoro, mentre solo il 41% è convinto di esserne in grado.
Quindi niente open-space, tiriamo su i muri come prima? Forse no, visto che stare a stretto contatto con i colleghi sembra far sì che riusciamo a concludere i progetti fino al 32% più rapidamente rispetto a quando ci lavoriamo con qualcuno “a distanza”. La vicinanza fisica significa comunicare di più anche per via digitale, dicono le indagini di Sociometric Solutions, al punto che gli scambi di email tra colleghi in questa situazione sono fino a quattro volte più frequenti (il che, effettivamente, potrebbe essere un disincentivo per molti). D’altronde laprivacy e la capacità di concentrarsi sono solo uno degli aspetti costantemente nel mirino in un periodo storico in cui cambia il concetto stesso di lavoro, e con esso l’idea di come il luogo di lavoro dovrebbe essere e di quanto sia necessaria la nostra presenza in ufficio.
La discussione principale – e in continua evoluzione, con la bilancia che pende dal lato dellaflessibilità – resta proprio quella tra lavoro in remoto a confronto con lavoro in ufficio, discussione che comincia ad arricchirsi di contributi scientifici interessanti e a volte inaspettati. Come un’indagine di Kevin Rockmann e Michael Pratt, che allerta sui rischi di quello che potremmo chiamare “ufficio deserto”, ovvero di quanto rimane del lavoro di squadra una volta che in loco rimane solo una manciata di individui, magari scollegati tra loro nelle mansioni, e che dunque non traggono benefici dalla reciproca presenza.
Tra le tecniche per migliorare il lavoro di squadra una in particolare è entrata a gamba tesa negli ultimi anni. Si tratta della mindfulness, vivere il “qui e ora” concentrandosi su quello che si sta facendo e basta. Un approccio (molto di moda) a lungo considerato mistico, spirituale e poco scientifico, ma che si sta lentamente arricchendo di evidenze in merito agli effetti positivi che comporta, anche sul lavoro. Negli uffici di Google, ma anche alla Mayo Clinic, è ampiamente sfruttata. Proprio per togliere la persistente patina di esoterismo, un gruppo di ricercatori ha elaborato una revisione di oltre 4000 paper sui vari aspetti della mindfulness. Hanno concluso che  riesce a migliorare tre specifiche componenti dell’attenzione – la stabilità, il controllo e l’efficienza – aiutando la mente a focalizzarsi sul presente e a lavorare meglio. I partecipanti agli studi che avevano completato un allenamento di mindfulness rimanevano vigile più a lungo sia nei compiti di ascolto che in quelli visivi. Pur trattandosi di una qualità individuale, scrivono gli autori dello studio, la mindfulness può migliorare le relazioni anche sul luogo di lavoro, promuovendo maggior empatia in chi la pratica e migliorando quei processi che richiedono una direzione efficace ma anche un buon lavoro di squadra.
Ma la questione è ancora più articolata. “Sul posto del lavoro ci sono elementi concreti che possono modellare le funzioni cognitive: alcuni li puoi vedere, o toccare, altri no”, spiega Joseph Grzywacz, in uno studio sul Journal of Occupational and Environmental Medicine. Nel corso degli anni gli scienziati si sono interrogati più volte su quali fossero i fattori più dannosi per il nostro cervello, se quelli materiali – come la sporcizia in ufficio – o quelli invisibili come una mancanza di stimoli e motivazione nei compiti. “Siamo riusciti a mostrare che entrambi contano nella salute cognitiva dell’adulto”, con conseguenze sul benessere a lungo termine.
Basandosi sui dati di quasi 5000 adulti tra i 32 e gli 84 anni, Grzywacz e il suo gruppo hanno potuto dimostrare che chi sul lavoro ha modo di affrontare sfide, gestire un ambiente complesso e migliorarsi, per esempio acquisendo nuove abilità, mantiene performance cognitive migliori via via che invecchia, specialmente le donne. A beneficiarne sono lamemoria, ma anche la capacità di completare i compiti in modo efficiente, di gestire il proprio tempo e di mantenere alta l’attenzione, applicando in un secondo momento le cose imparate. Secondo Grzywacz si tratta di un esempio concreto, applicato al nostro cervello, del modo di dire “if you don’t use it, you lose it”, se non lo usi lo perdi. Il secondo risultato ottenuto in quest’indagine riguarda un aspetto di quelli che si vedono a occhio nudo, ovvero la sporcizia: sia uomini che donne, quando il loro lavoro li espone a un ambiente sporco, vanno incontro a declino cognitivo.
Sulle conseguenze per la salute a breve termine, una parola che sentiamo sempre più spesso èburnout, esaurimento, crollo. Quello che succede quando lo stress lavorativo raggiunge il massimo e si arriva a un problema patologico. La Leeds Beckett University ha raccolto in undatabase tutti gli interventi più diffusi per prevenirlo e trattarlo (come workshop, occasioni di formazione, programmi cognitivo-comportamentali…) ed è arrivata alla conclusione che agire sull’ambiente di lavoro è più efficace e duraturo nei risultati rispetto al concentrarsi sulla singola persona. Ma nelle aziende solitamente avviene l’esatto contrario. Secondo i dati delLabour Force Survey nel Regno Unito, sul biennio 2013-2014, lo stress, l’ansia e la depresisone legati al lavoro costituiscono il 39% dei casi di patologie che colpiscono il lavoratore. Una percentuale che ha spinto i ricercatori ad attirare l’attenzione su cosa ancora non funziona sia dal punto di vista del trattamento sia da quello della prevenzione, fondamentale quanto spesso trascurata.
Gli interventi pensati per ridurre i sintomi e l’impatto del burnout, considerato una vera e propria sindrome che colpisce il lavoratore – nella sua individualità, nell’impegno sul lavoro e nelle emozioni che vi associa – vengono condotti per la maggior parte sui singoli individui, su piccoli gruppi, trascurando il livello superiore. Che andrebbe preferito o, ancora meglio, integrato, modificando il carico di impegno e anche il flusso lavorativo, le pratiche da rispettare nel quotidiano. Combinando i due approcci, scrivono gli autori nel rapporto, i risultati sono migliori e durano più a lungo, perché aiutano a instillare un vero cambiamento nel sistema lavoro: l’ambiente diventa più partecipato, la comunicazione è più aperta ed è più facile che gli impiegati vengano coinvolti nelle decisioni e nella pianificazione aziendale. “Ci sono prove scientifiche su cosa funziona e cosa no per trattare il burnout e lo stress legato al lavoro, ma sappiamo molto di meno riguardo a come prevenirlo, prima di tutto”, commenta James Woodall, della Leeds Beckett.
Affrontare anche questo aspetto aiuta non solo il benessere dell’individuo, ma la comunità. Come spiega Anne-Marie Bagnall, collega di Woodall e coinvolta nella stesura del rapporto, “è di grande importanza anche dal punto di vista della sanità pubblica e da quello delle aziende con l’obiettivo di ridurre l’assenteismo e migliorare la produttività”. Il burnout non è solo l’esito di un processo di stress prolungato, ma è “associato a conseguenze negative per la salute come depressione, dolore muscolo-scheletrico, diabete di tipo 2, patologie cardiovascolari e mortalità prematura”, prosegue Bagnall. L’obiettivo finale dovrebbero essere luoghi di lavoro che contribuiscono a migliorare la salute fisica e mentale di chi li vive, e in questo modo diventano un valore aggiunto per l’azienda: una forza lavoro in salute si assenta di meno per malattia, ha bisogno di un ricambio meno frequente e lavora meglio. “I dirigenti non possono permettersi di aspettare fino a quando l’esaurimento ormai è successo; è nel loro interesse mettere in campo interventi che possano prevenirne le cause principali, compreso lo stress e le condizioni che colpiscono muscoli e ossa”.

sabato 25 giugno 2016

Una guida per cercare di capire dove sta andando il mondo.

Bisogna che mettiamo in fila un po’ di idee, perché le cose che negli ultimi anni siamo andati dicendo che “rischiavano di succedere”, adesso stanno succedendo, e forse ci tocca di rivedere con qualche allarme in più le analisi che prima suonavano precoci e pour parler. Il modo migliore per capire è fare delle domande e vedere che risposte abbiamo, o se ce ne vengono di sensate. Però scriverò una cosa lunga, anche per ordine mio e per levarmi il pensiero prima che comincino le partite di oggi, quindi non mi offendo se vi stufate tra dieci righe.
1. Cosa sta succedendo?

Lo dicevamo appena qualche giorno fa, a proposito dei risultati elettorali italiani: “Sia nel tempo che nello spazio, quello che sta succedendo ora in Italia sta dentro una cosa assai più estesa. E quella cosa non è solo italiana: alimenta molti successi anomali e nuovi in molte parti del mondo. Che si tratti di movimenti che sembrano più di destra o più di sinistra – hanno spesso cose di entrambe -, questi successi sono visibili in molte parti d’Europa (nel Regno Unito poi dopodomani votano persino per uscire dall’Unione Europea). Ma sono arrivati – dopo le avvisaglie dei Tea Party – anche negli Stati Uniti con dimensioni impensabili e con la vittoria di Trump alle primarie, che sarebbe il primo presidente a non aver servito il suo paese in politica o come militare. Se vi ricorda qualcosa, questo essere “fuori dalla politica”.
C’è un andamento sociale che riguarda tutto l’Occidente e che – caso raro nella storia, ma non inedito – muove le sue civiltà verso il regresso e non verso il progresso: anzi rivendica spesso il regresso stesso, contesta la competenza, la cultura, l’esperienza, e usa gli strumenti che sono arrivati per superare il gap tradizionale dato da quei caratteri e sostenere che sia meglio il “normale” dell’eccezionale, l’ignoranza della sapienza, l’ingenuità dell’esperienza”.
Il ministro conservatore britannico Michael Gove, uno dei maggiori leader della campagna per “Brexit” ha definitivamente sintetizzato questa tendenza, proclamando senza vergogna che “il popolo britannico è stufo di esperti”. La “cosa che sta succedendo” è che l’ignoranza sta vincendo, presentandosi come tale.

2. E perché non ce ne siamo accorti?

Ce ne siamo accorti, ma siamo abituati a che le catastrofi non succedano davvero (speriamo ancora che non succedano), e poi ci sentiamo disarmati, e insomma ci siamo detti “pazienza, un po’ di agitazioni, poi passerà e le cose torneranno come prima”. Che le cose si possano sempre fare tornare come prima è una delle grandi ingenuità del nostro pensiero di umani. Un po’ è un tic psicologico, un po’ la storia e il modo di raccontarla ci hanno abituato così, che il mondo progredisce: prendete l’Europa, è sempre cresciuta, allargata, e quello che ci hanno sempre detto era che fosse destinata a crescere di più. Non di meno.
E poi, in una notte.
Comunque, ora se ne stanno accorgendo tutti. Solo negli ultimi giorni mi sono imbattuto in questi:
Sono tutte analisi molto esatte e interessanti, e altre decine e decine ce ne sono, che dicono quello di cui al punto 1: il loro problema è che si autoconfermano, come suggerisce il titolo e il tema dell’ultima. Non si può sconfiggere la sospensione della ragione e della logica con strumenti di ragione e logica, e se anche io qui scrivessi le cose più intelligenti e definitive di sempre – si fa per dire! -, sarebbe inutile: è come cercare di sconfiggere l’analfabetismo con un libro che insegna a leggere, o spiegare su Twitter come mai non sta funzionando internet.

3. Come mai è successo?

In parte per ragioni ripetute mille volte, fino a diventare un po’ anche un alibi. Ci sono state crisi economiche e trasformazioni che hanno alimentato le difficoltà, le disillusioni e la rabbia di tantissime persone, in tutto l’Occidente. E l’inadeguatezza delle élite, politiche e non, ad affrontare questi problemi (inadeguatezza un po’ legata all’enormità del problema e un po’ alla mediocrità degli umani preposti) ha generato le reazioni di cui abbiamo scritto sopra (e che lo abbiano detto tutti mille volte dovrebbe suggerire che continuare a insistere sulle “colpe della politica” e sul “tornare a parlare ai cittadini” forse non basta: se fallisce la politica ovunque, probabilmente non basta “tornare a fare cose” ma serve “farne di diverse”).
Però queste condizioni “economiche” riguardano solo una parte dei coinvolti, e per esempio in Italia molto meno che presso certe classi sociali e geografiche degli Stati Uniti o del Regno Unito, per ragioni di diversa distribuzione della ricchezza e maggiore protezione pubblica delle sproporzioni sociali. Non è un fattore che basta: a far vincere Brexit o il M5S hanno concorso grandi maggioranze di persone che non possono in buonafede dirsi povere o in difficoltà economiche. C’è altro.
È successo anche un cambiamento culturale, non solo socio-economico. Le persone sono state educate dai cambiamenti tecnologici e dalla comunicazione di ogni genere ad avere necessità molto maggiori di affermazione di sé, molti più strumenti per cercare di soddisfarle, e molte più frustrazioni per il non riuscirvi mai abbastanza. Ci siamo convinti tutti di meritare di più, di poter ottenere di più, e di dover accusare qualcun altro se non ci riusciamo. Ce ne hanno convinti molto la televisione, prima, e poi internet, soprattutto. E in più internet ci ha anche dato gli strumenti che ci hanno illuso di poterlo ottenere, la famosa e giustamente ammirata “libertà di internet”, l’accesso per tutti a mille cose prima impossibili (io ci ho fatto un giornale, per esempio) ci ha abituati a pensare che tutto ci sia accessibile: con un malinteso senso di eguaglianza che annulla ogni forma di “merito” o qualità, un malinteso egualitarismo che non vuole che tutti comincino la gara a pari condizioni, ma che a pari condizioni restino tutta la gara e a pari condizioni la finiscano. Un senso di competizione permanente che trasforma in privilegio ogni successo altrui e in ingiustizia ogni fallimento proprio: innescato dapprima da una quantità enorme di reali privilegi e reali ingiustizie, ma poi divampato a diventare una lettura del mondo, della vita e della realtà.Qualcuno sta cercando di fregarci. E che ha come corollario l’incazzatura e la frustrazione permanenti, modi di pensiero che riattizzano il circolo vizioso.
(ne ho scritto tante volte, cerco di ripetermi meno che posso)

4. Come lo abbiamo affrontato?

In modi diversi.
a) una parte di politici forse benintenzionata non è stata intellettualmente in grado di comprenderne la dimensione o la serietà. È andata al massimo dicendo che c’era un problema di “farsi capire dagli elettori”, di “scollamento”, è ricorsa a categorie economiche molto tradizionali e anacronistiche, non ha colto per niente le dinamiche psicologiche e di comunicazione e il secondo fattore citato sopra. La cosase li è mangiati.
b) un’altra parte di politici – più in sintonia culturale o caratteriale con quello che stava succedendo – ha finto di o ha provato ad assecondare quelle richieste, molto difficili da soddisfare per la loro parte “economica” e impossibili da soddisfare per la loro parte psicologica. Lavorando su un diversivo per la parte psicologica – ovvero indicare capri espiatori (siano immigrati o “politici”, l’intento è lo stesso) ed eccitare la rabbia invece che curarla – e promettendo soluzioni impossibili per la parte economica: che è la demagogia, quella che ora tutti chiamano “populismo”. Fino a che la distrazione del primo approccio prevale sui fallimenti del secondo, questi politici vanno forte, poi scompaiono, almeno nelle democrazie: è lì che a volte nascono le dittature.
c) una grande parte dei media si è accodata – per ragioni economiche e di posizionamento – all’approccio di cui al punto b), favorita – differenza rilevantissima – dal non essere chiamata a trovare soluzioni o dare risposte. Ha quindi potuto produrre quantità enormi di informazioni demagogiche, false, sobillatrici, e di capri espiatori, senza alcuna responsabilità o rischio; anzi rinnovando a ogni breve ciclo i capri espiatori, e demolendo nei mesi dispari i carri su cui era salita nei mesi pari, esente dal doverne rispondere. Ed è diventata – complice internet e i nuovi meccanismi che col concorso di tutti (utenti, inserzionisti, indotti vari, ciascuno di noi) fanno prevalere la forza delle quantità su quella della qualità – il più efficace promotore della cosa. Ma sono riflessioni banali, goebbelsiane: nessun regresso culturale o grande imbroglio sulla realtà è mai funzionato senza un gran lavoro di disinformazione. Un tratto interessante è che stavolta la disinformazione è indipendente, spontanea.
d) una minore e sempre più inerme parte dei media ha cercato di mantenere un’informazione più seria e consapevole sulla complessità delle cose, più rispettosa di fatti e realtà, e a favore della ragione e della logica: tra questi molti diventano sempre più marginali a causa del calo della domanda di qualità e del suo valore economico, mentre alcuni riescono a stressare a sufficienza quella ridotta a domanda da poter sopravvivere, ma di certo incidendo molto meno sull’informazione diffusa (in Italia, come si è detto spesso, le testate maggiori tendono da sempre ad appartenere sia al punto c) che al d), ma sbilanciandosi sempre più verso il c).
E le democrazie poco informate funzionano male, a volte persino peggio di certe non democrazie. Tema diventato attualissimo e plateale dopo il referendum britannico.
e) tutto il resto di noi si è più o meno scandalizzato – quelli non protagonisti dellacosa, che ci contagia sempre di più – reagendo o in modi completamente controproducenti, spesso figli degli stessi meccanismi psicologici belligeranti e arroganti, oppure con wishful rassegnazione, aspettando che passasse.

5. È colpa della democrazia?

Se fosse “colpa della democrazia” non avremmo nobilitato così convintamente la democrazia finora: qualcosa deve essere successo. Ovvero quello di cui sopra: di sicuro è cambiato il mondo che usa le democrazie in modi che rendono le democrazie uno strumento molto meno soddisfacente ed efficace di come eravamo abituati a pensare, forse persino meno “giusto”: per quanto la democrazia abbia una ragione di giustizia ed equità insita nel suo principio. È quindi assurdo “accusare” la democrazia, con l’idea autoassolutoria (e autogratificante) che basti togliere di mezzo “gli ignoranti” (che sono sempre gli altri). Al momento, anche nelle condizioni date, non esiste strumento altrettanto efficace per garantire sulla lunga distanza il progresso delle comunità e la loro giustizia. Però è vero che fare della democrazia una specie di coltellino svizzero, o di oracolo – e usare il termine “democratico” a caso per nobilitare qualunque cosa – buono ad affrontare ogni problema è stata una sciocchezza, figlia della sacralizzazione della democrazia nelle culture correnti, e della trascuratezza con cui si  è smesso di spiegare che la democrazia per funzionare deve essere rappresentativa (oltre che informata): e che delegare a qualunque cittadino la decisione concreta su qualunque cosa non è “democratico”, ma è il contrario: annulla il senso del suo scegliere dei rappresentanti e delegarli, e rende le scelte inevitabilmente poco informate. La democrazia diretta è il contrario della democrazia. I fautori retorici delle “decisioni del popolo” e della democrazia diretta hanno in questo senso grandi responsabilità, da qualunque ideologia provengano: e ora si scandalizzano di Brexit.
A voler correggere la domanda iniziale, quindi, probabilmente “è colpa di un’idea di democrazia sacrale e astratta, poco informata e poco rappresentativa”: che ha contagiato pure David Cameron, lo scellerato consegnatore “al popolo” di una decisione come quella dell’appartenenza all’Unione Europea (vedi il precedente delreferendum sulle lasagne a Milano).

6. La “cosa” sta succedendo ovunque?

La domanda 6 sarebbe in realtà “E cosa si può fare?”, ma nel timore che la risposta sia “niente di realistico”, la prendiamo per ora da un’altra parte: ovvero cercando di capire se sia inevitabile che la cosa succeda o se da qualche parte non succede, e perché.
Sta di sicuro succedendo spettacolarmente – con declinazioni e contesti molto diversi e peculiari, mescolati con lo stesso fenomeno: ma evitiamo di dire “eh, ma lì, è diverso”, ché i tratti che ho detto all’inizio ci sono – in Regno Unito (vedi referendum), in Italia (vedi successi del M5S e della Lega prima, ma in un senso meno vistoso anche di Berlusconi), in Francia (vedi successi dei Le Pen sempre più in avvicinamento alla vittoria), in Spagna (vedi Podemos di imminenti vittorie), in Austria (vedi superdestre che hanno appena perso per un pelo), in Ungheria e Polonia. E negli Stati Uniti, dove è in ballo che gli argomenti di Trump facciano il colpaccio (ripeto, con le cospicue differenze del caso). Poi succede in misure ancora non di primato in diversi altri paesi europei.
Dov’è che succede in forme minoritarie e non ancora vincenti, pur dentro lo stesso sistema di civiltà e democrazie occidentali? Direi in Germania, nei paesi scandinavi, in Canada e in Australia (non confondiamoci: non parlo di posti “progressisti” ma di posti dove funzionano ancora schemi politici e sociali non sovvertiti dalla cosa). Come mai? Cos’hanno questi paesi?
La maggior parte di loro sono più ricchi, o poco popolati: meno problemi reali ad alimentare tutto il resto (eppure qualcosa lo stesso ribolle, in Scandinavia e Gemania). La Germania poi si è liberata da poco dal prezioso impedimento del postnazismo, dell’essere stato il paese della cosa per antonomasia del Novecento. In Australia ci sono peculiarità geografiche e storiche che probabilmente spiegano una condizione meno in evoluzione, più politicamente convenzionale. Resta il Canada, che ha da poco persino un premier giovane e liberal (anche l’Italia, ma con una scorciatoia meno democratica, e che si trova sotto rischiosa aggressione da parte della cosa): andrebbe studiato, ma probabilmente è uno stato che ha delle condizioni di fatto non esemplari.
L’impressione è che insomma tra i paesi coinvolti da questo fenomeno nessuno abbia trovato un modo promettente di affrontarlo e limitarlo. Forse l’unica cosa che ci dice la Germania è che se, per ragioni difficilmente replicabili a livello politico sulla breve distanza, hai costruito un’economia discretamente forte e un sistema di istituzioni più solido, il pericolo è più lento a manifestarsi, almeno fino a che durano quelle condizioni.

7. Era già successo che “si tornasse indietro?”

Questa è una divagazione: non credo, e lo scrivo volentieri, che la storia “insegni lezioni” più di tanto per capire quello che succede oggi, soprattutto sulle discontinuità. Spesso anzi ingabbiare tutto in riferimenti storici a contesti diversissimi è il modo peggiore per capire le cose (e la storia ha poi precedenti per tutto e per il contrario di tutto). Però per sapere se la cosa è plausibile e può peggiorare di molto è interessante capire questo: ci possono essere, delle discontinuità, delle inversioni, rispetto all’idea di progresso delle nostre civiltà occidentali con cui veniamo educati da quasi un secolo? È successo in passato che la cultura che ci governava e muoveva – parlo di tutto l’Occidente o di una sua estesa parte – regredisse, privilegiando di più l’ignoranza sul sapere, il falso sul vero, rispetto a quella che l’aveva preceduta? L’esempio più spettacolare è il nazismo e il suo traboccare in mezza Europa, l’Olocausto. Ma lì c’è un’unicità, per definizione. Però altri ce ne sono, ho sentito in questi giorni pareri interessanti, e io credo che non sia “storicamente impossibile” che vada a finire male, di un male inedito e contemporaneo (poi se me lo chiedete, continuo a non crederci, ma forse per ottimismo irragionevole): ve la lascio come conversazione estiva.

8. E quindi c’è un modo per non far vincere “la cosa”?

Ovvero per non far ripetere la vittoria di Virginia Raggi a Roma – astenersi indulgenti e ingenui wishful thinkers sulla faccia pulita del M5S: fosse anche la persona più perbene del mondo, gli approcci e metodi e “idee” del M5S sono imperdonabili e insuperabili e Farage mica è amico mio -, per non far ripetere il risultato britannico, per non far vincere Marine Le Pen alle prossime elezioni francesi, per non far diventare Trump presidente degli Stati Uniti, e così via fino al potenziale nazismo 2.0?
Se mi costringo a essere sincero con me stesso, temo di credere di no. Probabilmente credo di no. Ma come diciamo sempre, questo non ci consente ancora di andare al mare – è quasi luglio – e fregarcene (lo facciamo da anni, e guarda come siamo ridotti). E temo anche di non potere avere io – né la gran parte degli editorialisti da prima pagina – l’idea che ormai da un pezzo stanno cercando i governi di mezzo mondo: però se continuiamo ad analizzare quello che sta succedendo con le stesse categorie mentali che l’hanno fatto succedere, che non si sono accorte che stava succedendo, che hanno pensato di tenerlo a bada o che passasse, presto ricorderemo Brexit come un periodo ancora tutto sommato normale.
Certo, è così una bella giornata, fuori.

Luca Sofri, Cosa sta succedendo ?,  "Wittgeinstein", 25-06-16.

mercoledì 22 giugno 2016

L'insolita alleanza: Israele e Russia.

Durante il meeting del 7 Giugno u.s. Vladimir Putin e il capo del governo israeliano Netanyahu hanno deciso di iniziare una collaborazione militare tra i due Paesi. E' una decisione storica, che rompe il classico ed univoco legame tra le Forze dello Stato Ebraico e quelle degli USA.  Un cambio di prospettiva strategica, da parte di entrambi i Paesi, che modifica sensibilmente le vecchie, tradizionali posture ereditate dalla guerra fredda. Finisce il sostegno univoco di Mosca ai Paesi Arabi, ereditato dal XX Congresso del PCUS, nel 1956, per rafforzare le “borghesie nazionali” del mondo islamico; termina d'altro canto il rapporto univoco tra Gerusalemme e Washington, che era anch'esso in funzione di contrasto agli alleati dell'URSS in Medio Oriente. Una relazione, quella con gli USA, che ha da un lato rafforzato tecnologicamente Israele, ma lo ha costretto in un orizzonte strategico da piccola potenza regionale che, oggi, non è più ragionevole. Alla riunione del 7 Giugno hanno partecipato, insieme a Netanyahu, il capo dell'intelligence militare, gen. Hertzi Halevi, e il capo del Mossad, Yossi Cohen.
Nella prossima estate, peraltro, avranno luogo operazioni congiunte russo-israeliane navali ed aeree, con aerei e navi russe provenienti dalle basi siriane. Vi è anche da valutare un dato economico ed energetico: le aziende russe potranno partecipare allo sviluppo dei giacimenti israeliani Tamar e Leviatan. Ma vi è inoltre un dato strategico: la presenza russa eviterà che i giacimenti e le pipelines divengano oggetto di attacchi da parte di Iran, Hezbollah, Siria. Naturalmente, la collaborazione solo navale ed aerea è tale da preservare sia Israele che la Russia da un involontario mix di segreti militari. Sul piano operativo, il meccanismo di scambio di informazioni tra Mosca e Gerusalemme durante la guerra aerea in Siria verrà ulteriormente rafforzato ed esteso, poi vi saranno collegamenti strategici sul piano navale. La Russia è una grande potenza navale “tradizionale”, Israele ha una Marina Militare fatta di naviglio sottile e a risposta rapida. Un insieme ideale.
Per Putin l'interesse primario, oggi, è quello di rafforzare i legami tra Israele e la Turchia, per Netanhyahu invece la Russia potrebbe essere un power broker ottimale per trattare una pace definitiva tra lo Stato Ebraico e l'universo palestinese. La Russia, poi, non ha mosso un dito quando l'aviazione israeliana ha attaccato i convogli che andavano a rifornire, nella guerra siriana, le milizie sciite. Si prefigura, anche sul piano geoeconomico ed energetico, una alleanza tra Israele, Grecia e Cipro che potrebbe cambiare molte cose nel panorama finanziario e politico della UE. Una Unione Europea, per insipienza, che si trova ad avere un sistema economico e geopolitico a Sud-Est che non può controllare. Se l' Unione Europea mantiene ancora le sanzioni verso la Russia, i Paesi strategicamente intelligenti (ormai rarissimi) cercheranno, come sta facendo Israele, di sostituirsi alla vecchia e ingenua UE. Le sanzioni contro Mosca dovrebbero cessare il 31 Luglio 2016, ma i danni economici per i Paesi europei sono stati drammatici. La Russia è, per la UE, il terzo mercato per l'export. La bilancia commerciale tra l'Unione e Mosca è caduta invece da 326 miliardi di Euro a 285.
Le contromisure russe sono state peraltro dure: l'estensione della chiusura del mercato interno e la perdita netta della UE valgono circa 11 miliardi di Euro, con una prospettiva, se le sanzioni continuassero, di 55 miliardi di Euro in perdite per la UE.
Ecco l'equazione strategica che cercavamo: l'economia europea, già in crisi, diventa un utile esperimento per una versione particolarmente severa del TTIP da parte degli USA; la Russia subisce un arretramento tecnologico nelle macchine utensili e in quelle per l'estrazione petrolifera, gli USA possono allora ricominciare il vecchio gioco della guerra fredda ai nuovi confini tra Europa e Federazione Russa. E' un progetto geopolitico ingenuo e furbo insieme.
Ma poi, cosa ne viene all'Italia, o alla Francia, dall'innesco di un confronto in Ucraina? E' un Paese in gran parte russo o russificato dalla notte dei tempi ed è, per Mosca, la garanzia strategica del passaggio regolare delle proprie pipelines dal Caucaso verso il Mediterraneo ed è,infine, un punto di irraggiamento degli interessi russi tra Mar d'Azov e Mar Nero, che non possono certo essere lasciati, per Mosca, ad una generica “forza internazionale”. Non bisogna poi dimenticare che l'Ucraina ha siglato, il 1 Gennaio 2016, il Deep and Comprehensive Free Trade Agreement con la UE. Per l'ultimo dato che abbiamo a disposizione, l'interscambio commerciale tra Ucraina e Unione Europea di 20,4 miliardi di Euro e allora, anche qui si svela la formula strategica sottostante: Kiev diviene un “mercato di sostituzione” al posto della Federazione Russa.
Peraltro, la Cina sfrutta oggi molto bene questo canale verso i mercati europei; e quindi abbiamo ancora un altro tassello della formula geopolitica attuale dell'Ucraina: essa, se la Russia non si muoverà, diverrà il grande hub tra l'Asia Centrale e l'UE, bypassando Mosca e rendendola marginale nel commercio mondiale. Era il grande sogno di Jeffrey Sachs della Banca Mondiale, chiamato a risolvere il disastro economico postosovietico di Mosca. Ma è realistico questo progetto? Noi pensiamo di no e, anzi, riteniamo che Israele abbia fatto benissimo a “sostituire” almeno inizialmente, l'appoggio delle FF.AA USA con quello dei militari russi. Washington se ne sta andando dal Medio Oriente, Gerusalemme lo sa bene e corre ai ripari.
Ma gli USA, a parte la questione del TTIP, se ne stanno andando anche dall'Europa. Peraltro, la questione del TTIP, per quanto se ne sa, ricorda molto da vicino il vecchio Year of Europe, pensato da Henry Kissinger nel 1973. Noi, gli USA, apriamo una parte dei nostri mercati ai vostri prodotti, ma ve li paghiamo con commercial paper da scontare. D'altra parte, la questione della Brexit incombe. Se, come gli ultimi sondaggi ci fanno pensare, il Leave vincerà, cambierà l'intera struttura geopolitica della UE. Sugli effetti abbiamo già parlato a lungo, ma c'è un dato strategico: se la Gran Bretagna esce dalla UE, si rafforzeranno inevitabilmente i suoi legami con gli, USA, e se Londra esce dal sistema europeo, potrà, prima di rinegoziare i trattati commerciali, operare con politiche aggressive sui mercati. Se infine l'Inghilterra se ne andrà, avremo una UE a direzione ancor più marcatamente tedesca. Insomma, ogni soluzione deve essere attentamente valutata, niente è oggi certo.
Giancarlo Elia Valori, Russia e Israele, "Progetto Dreyfus", 19-06-16.

Mosca e Vaticano alleati contro la deriva laicista.

L’incontro tra il patriarca ortodosso di Mosca, Kirill, capo della chiesa ortodossa russa, e Francesco, pontefice cattolico, il 12 febbraio scorso a Cuba, fu giustamente definito storico. Tuttavia è stata solo una tappa di un lungo cammino di riavvicinamento tra le confessioni cattolica e ortodossa che, divise da questioni teologiche, trovano una convergenza su importanti questioni geopolitiche. Non da ultima, la lotta al fondamentalismo islamico.

La chiesa ortodossa russa, braccio spirituale del Cremlino
La chiesa russa è oggi la più importante tra le chiese ortodosse sia per il numero di fedeli, circa 200 milioni, sia per la coincidenza tra la sede patriarcale,Mosca, con la capitale di uno dei paesi più importanti al mondo, la Federazione Russa. Una coincidenza rafforzatasi dopo la fine del comunismo e la rinascita religiosa russa che ha trovato una fondamentale sponda nella politica di Vladimir Putin, attento a ricostruire nel paese un’identità legata alla religione e alla conservazione dei valori tradizionali, facendo del patriarcato il braccio spirituale del Cremlino, come già in passato fecero gli zar.
L’alleanza tra trono e altare si è rafforzata notevolmente negli ultimi anni, grazie all’operato di Kirill, a capo della chiesa russa dal 2009. Il presidente Vladimir Putin lo ha apertamente lodato per l’impegno contro “la primitiva e volgare concezione della laicità” ereditata dal periodo sovietico. La chiesa è investita, nella nuova Russia putiniana, del compito di istruire i giovani ai valori tradizionali russi, di rafforzare lo spirito patriottico, di sostenere il ruolo della maternità e della famiglia tradizionale. Non solo, con l’avvento di Kirill si è assistito a una proiezione del patriarcato fuori dai confini russi, conmissioni pastorali (e diplomatiche) in Azerbaijan, Armenia, Moldavia, Ucraina, Turchia e Cipro, solo per citarne alcune. Tutti paesi che coincidono con i vettori della diplomazia russa: il Caucaso, l’Ucraina, il Mar Nero e il Medio Oriente.
Sulla via di Damasco, l’avvicinamento tra Vaticano e Putin
Con la lettera, inviata a Vladimir Putin da papa Bergoglio nel 2013, in occasione del vertice dei G-20 di San Pietroburgo, la Santa Sede rompeva gli indugiindicando al Cremlino la necessità di raggiungere una pace in Siria, rivolgendo alla Russia un appello perché se ne facesse garante. A seguito di quella lettera, Putin incontrò Bergoglio portando in dono l’icona della Madonna di Vladimir, dal potente significato simbolico, poiché fu quella che Stalin fece volare su Mosca durante l’avanzata nazista. Oggi un altro nazismo unisce nella lotta Cremlino e Vaticano: quello del fondamentalismo islamico.
Un secondo incontro, nel giugno 2015, segnava un passaggio decisivo delle relazioni russo-vaticane e apriva a un possibile viaggio pastorale di Bergoglio a Mosca. L’incontro segnò una rottura dell’isolamento internazionale del Cremlino dopo l’invasione russa della Crimea. In quell’occasione Bergoglio rivolse nuovamente a Putin l’appello affinché cessassero le violenze in Siria. Pochi mesi dopo Mosca interveniva nel conflitto siriano, a fianco di Assad.
Vaticano e Cremlino concordano sulla necessità di non lasciare la Siria in mano ai fondamentalisti, i quali combattono non solo tra le fila dell’ISIS ma anche tra i cosiddetti “ribelli” alleati di Washington. Non a caso Bergoglio condannò Washington per la sua intenzione di abbattere Assad a suon di missili. E se per la Santa Sede si tratta di una guerra- a tratti “santa” –  contro l’avanzata dell’islamismo e la difesa delle comunità cristiane locali, per Mosca è una più prosaica limitazione della presenza americana nel Medio Oriente.
Affinità e divergenze
La guerra in Siria non è l’unico collante tra Vaticano e Mosca: la difesa della famiglia tradizionale, che in Russia è aperta discriminazione verso gli omosessuali, è costata a entrambi le aspre critiche delle Ong internazionali. Tuttavia la politica sociale promossa da Putin – per tramite della chiesa ortodossa – è assai più affine al magistero cattolico rispetto a quelle che il Cremlino ha definito “le derive nichilistiche dell’occidente”. L’eccessiva “fiducia nella ragione”, ha dichiarato Putin, è la via su cui l’occidente troverà il naufragio: solo il ritorno a un irrazionalismo spiritualista potrà salvarlo. Un concetto che, nel 2006, papa Ratzinger espresse chiaramente: “è l’occidente il peggior nemico dell’occidente”. 
La riaffermazione dello spirito contro la ragione è ciò che il Vaticano propone all’Europa come antemurale al fondamentalismo islamico: un’Europa cristiana potrà meglio difendersi dalla barbarie del jihadismo. Concetto ampiamente condiviso dalla chiesa ortodossa russa quando affermò, per bocca di Kirill, che “Putin è l’ultimo difensore dell’occidente”.
La guerra in Ucraina ha certo incrinato il nascente idillio ma non ha fermato il processo di avvicinamento, potremmo dire di “alleanza”. Un’alleanza che, per essere effettiva, passa necessariamente dalla soluzione del millenario scisma tra cattolici e ortodossi. Una soluzione che sarà di lungo periodo, ma che le gerarchie vaticane vedono come un riconoscimento del primato del papa sui patriarchi: già Kirill propose che il papa di Roma venisse riconosciuto come “primo tra i patriarchi” mentre Bergoglio ha aperto all’individuazione di una data comune per la celebrazione della Pasqua. Qualcosa si muove.
Conclusioni
L’incontro di Cuba del febbraio scorso è solo un tassello, ma la posta in gioco non è unicamente spirituale. L’avvicinamento tra papa e patriarca segna anche un passo avanti nell’alleanza, se così è lecito chiamarla, tra Vaticano e Russia. Un’alleanza che conviene a entrambi: al Vaticano, che potrebbe vedere riconosciuta la propria supremazia spirituale sul mondo ortodosso; al Cremlino, che troverebbe una fondamentale sponda per i propri interessi in politica estera.
 Matteo Zola, Russia: Mosca e Vaticano, una (Santa) Alleanza ?, "East Journal", 21-06-16.

lunedì 20 giugno 2016

Odessa, provincia di Napoli.

Nel 1794, Giuseppe De Ribas, nato a Napoli da un nobile spagnolo al servizio dei Borboni,fondò la città di Odessa, in Ucraina, organizzandone il porto, la flotta e il commercio, rendendola una città importante per il Mar Nero e il Mediterraneo.
Al posto di Odessa “città leggendaria”, come la definisce Charles King, docente di Affari internazionali della Georgetown University di Washinghton, nel suo recente libro Odessa (Einaudi 2014), sorgeva un villaggio, Khadjber, abitato dai tatari. De Ribas entrò in contatto con questo lembo di terra quasi fortuitamente, in quanto Ufficiale di collegamento al servizio dell’Ammiraglio Grigorij Aleksandrovič Potëmkin, principe e amante dell’imperatrice Caterina, il cui obiettivo, dopo la sconfitta dell’impero ottomano, era di estendere verso ovest il grande impero russo.
De Ribas ribattezzò il villaggio Odesso, in omaggio alla vecchia colonia greca che si estendeva sulla costa. Luogo di incontro tra la civiltà orientale e quella occidentale, multiculturale per la sua stessa natura geografica, situata alla foce di grandi fiumi, tra cui il Danubio, divenne presto il cuore pulsante dell’impero meridionale della zarina Caterina, la quale per la sua stessa forza ed importanza geo-strategica ribattezzò il villaggio al femminile, Odessa.
Ben presto, ad Odessa si costituì una colonia italiana, che nel 1850 contava circa tremila di abitanti, quasi tutti di origine meridionale. Rilevante fu il contributo che questa comunità diede alla fondazione, allo sviluppo e all’economia dell’impero russo. L’italiano rimase lingua ufficiale dell’attività economica della città. Cartelli stradali, passaporti, liste dei prezzi erano scritti in italiano, e la comunità italiana diede un grande contributo alla cultura della città alle porte del Mar Nero, soprattutto nell’ambito dell’architettura. Il napoletano Francesco Frapolli fu nominato architetto ufficiale della città da Richelieu, nel 1804 e fu lui a progettare la monumentale Opera di Odessa e la famosa Chiesa della Trinità.
La famosa canzone O’ sole mio fu scritta e composta ad Odessa da Giovanni Capurro e Eduardo Di Capua che in quel tempo si trovava nella città russa. La musica si ispirò ad una bellissima alba sul Mar Nero e dedicata alla nobildonna oleggese Anna Maria Vignati Mazza. Il brano non ebbe immediato successo a Napoli, salvo poi diventare famosa sulle sponde del Mar Nero e da lì divenire canzone patrimonio della musica mondiale.
Inoltre, grandi attori teatrali come Tommaso Salvini, Ernesto Rossi ed Eleonora Duse contribuirono alla formazione dell’Opera di Odessa, facendo della città la più europea e mediterranea dell’impero russo.
Tuttavia, il peso della colonia italiana diminuì progressivamente nella seconda metà dell’Ottocento (nel censimento del 1900 la comunità italiana contava solo 286 unità), ma l’impronta italiana nella città è evidente tutt’oggi.
Odessa, città di frontiera tra est e ovest, in realtà vanta radici nell’Italia meridionale. Ieri come oggi, la costa del Mar Nero rimane una regione di frontiera tra l’Europa occidentale e quella orientale. Ripensare alle radici comuni aiuterebbe a guardarsi con fratellanza e unione. 

Ida Valicenti, Ucraina: Odessa città napoletana, dove l'italiano era lingua ufficiale, "East Journal", 15-06-16.