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sabato 4 novembre 2017

"Furore" ("The Grapes of Wrath") in una nuova traduzione in italiano.

Una brillante presentazione di uno dei classici della letteratura statunitense, riproposto recentemente al pubblico italiano nella nuova traduzione di Sergio Claudio Perroni.
Al termine, il film di John Ford tratto dal romanzo.

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Reso in italiano con il titolo  Furore  grazie a una felice intuizione di Valentino Bompiani, The Grapes of Wrath di John Steinbeck annovera primati di vendite e di gradimento capaci di far indietreggiare quasi ogni altro romanzo del Novecento americano. A riprova di un successo commerciale che non sembra conoscere flessioni, uno studio del 2015 dello Stanford Literary Lab ha analizzato la ricorrenza e la canonicità di un ampio corpus di romanzi in lingua inglese in cinque diversi database – tra cui le classifiche dei lettori e dei critici della Modern Library e quelle dei libri del Novecento più venduti anno per anno – arrivando a individuare in The Grapes of Wrath l’unica opera presente in tutti e cinque gli archivi.
Best-seller sensazionale, nonché succès de scandale, all’uscita, nel 1939 e nell’anno successivo, quando John Ford diresse il film omonimo che lo avrebbe consacrato a fama internazionale, Furore non ha mai smesso di godere di immensa popolarità regalando all’autore il Nobel nel 1962, un riconoscimento tardivo e inatteso motivato quasi esclusivamente da quell’epico affresco della grande Depressione. In Italia il romanzo di Steinbeck fu tradotto nel 1940, su consiglio di Elio Vittorini, da Bompiani(che due anni prima aveva già pubblicato Uomini e topi con la traduzione di Cesare Pavese) in una versione tagliata e rimaneggiata dalla censura fascista. Per una nuova traduzione integrale il lettore italiano avrebbe aspettato più di settant’anni. La traduzione di Sergio Perroni del 2013 ha restituito non solo le parti precedentemente tagliate ma anche, anzi soprattutto, l’ampia tavolozza espressiva di Steinbeck, dal lirismo simbolico di alcune descrizioni del paesaggio al duro naturalismo di altre, dalla fattualità documentaristica di denuncia del New Deal all’impasto di cadenze bibliche che riecheggiano l’Ecclesiaste (e la lingua di Walt Whitman e di Ernest Hemingway), dalla resa mimetica del gergo dei migranti dell’Oklahoma all’invenzione di una sorta di trascendentalismo disadorno per i sermoni visionari dell’ex-predicatore Casy. Proprio dalle pagine di questa nuova traduzione di Furore sono stati scelti i passi del recente reading di Alessandro Baricco con musiche di Francesco Bianconi andato in onda su Rai 3 in occasione della giornata dedicata alle vittime della migrazione.

Sulla Route 66, “sentiero di un popolo in fuga”

Ma perché, per citare Baricco, Furore è – e rimane – un romanzo nei cui personaggi ognuno di noi continua a riconoscersi? Perché Furore, nato come rappresentazione letteraria diretta e urgente di una condizione storica e geografica precisa evoca una condizione umana e sociale di sempre maggiore attualità? E perché la lettura di Furore può avere, oggi più che mai, la funzione di un rito collettivo? La storia raccontata da Steinbeck costituisce la narrazione più icastica della grande Depressione – la crisi agricola, economica e sociale che stringe gli Stati Uniti in una morsa devastante tra il crollo del 1929 e l’attacco a Pearl Harbour. Quella narrazione racconta della massiccia migrazione interna di cui sono protagonisti i contadini americani costretti dalla penuria dei raccolti e dal flagello biblico delle tempeste di sabbia (le “dust bowls”) ad abbandonare le pianure inaridite del Midwest e del Sud ovest (soprattutto dagli stati dell’Oklahoma, del Kansas e del Texas) e riversarsi lungo la Route 66 in un esodo che ha come meta la California. La terra promessa si rivela in realtà una sorta di giardino spinato in cui l’agribusiness californiano detta condizioni di lavoro disumane trasformando i migranti in raccoglitori stagionali sottopagati e privati di ogni diritto. Steinbeck racconta questa storia su due piani, in una struttura a specchio, i capitoli che portano avanti le vicende dei Joad, una famiglia di “Okies” – il termine dispregiativo con cui venivano chiamati i migranti provenienti dall’Oklahoma – e gli intercapitoli di contestualizzazione storica e universale: il generale di quella vicenda particolare.

La Route 66 diventa per i Joad e per tutte le famiglie di migranti “il sentiero di un popolo in fuga, di chi scappa dalla polvere e dal rattrappirsi delle campagne, dal tuono dei trattori e dal rattrappirsi della proprietà, dalla lenta invasione del deserto verso il Nord, dai turbinosi venti che arrivano ululando dal Texas, dalle inondazioni che non portano ricchezza alla terra e la depredano di ogni ricchezza residua”. Storia di un popolo in fuga, Furore presenta pochissimi interni e quasi solo esterni: tende, baracche, macchine, accampamenti, campi, spazi provvisori e sempre minacciati dalla furia degli elementi. Storia di famiglie sfollate che si accalcano, insieme alle poche masserizie sottratte allo sgombero, su vecchi Model T della Ford diventati i nuovi conestoga wagon dei pionieri (e proprio sulla drammatica ironia di questo accostamento gioca la copertina del libro foto-documentario del 1939 di Dorothea Lange e Paul Taylor An American Exodus). Un popolo di famiglie in fuga che, come i Joad, perdono pezzi lungo la strada e imparano quanto la giustizia sociale nasca dalla solidarietà umana e non abbia quasi niente in comune con la legge costituita. Famiglie, scrive Steinbeck, che nella condivisione del bisogno imparano a trasformarsi da “io” a “noi”. Quando i Joad approdano in California le avversità non si placano, facendosi anzi più aspre: l’unica parentesi positiva arriva nel campo gestito dal governo federale ma si tratta di un breve interludio tra accampamenti disperati e ripari di fortuna. Riescono infine a trovare lavoro ma solo come crumiri inconsapevoli e per una paga da sussistenza. Sono proprio le condizioni di indigenza in cui sono costretti come migranti e la violenza cieca con cui i cartelli dei coltivatori piegano ogni loro resistenza a far maturare in Tom (il maggiore dei Joad) e Casy (divenuto un Mosè degli Okies) il seme della solidarietà e della lotta di classe. Se la figura di Tom Joad ispirerà l’omonima ballata di Woody Guthrie nel 1940 – e, un secolo e mezzo più tardi, The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen (1995) – le parole con cui Tom si congeda da Ma Joad e dal lettore negli ultimi capitoli sono tra le più citate del romanzo: “io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto…dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame… dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno…sarò negli urli di quelli che si ribellano”. Anche con Tom e Casy usciti di scena, la famiglia Joad rimane unita grazie a Ma Joad, personaggio femminile a tutto tondo dotato di straordinaria robustezza morale, figura assai lontana dalle eroine dannate e divoratrici di Hemingway, Fitzgerald e Faulkner.

Quanto alla stesura di Furore, la storia dei Joad, degli Okies e di quel popolo in fuga ha una vocazione documentario-giornalistica, riconducibile a The Harvey Gypsies (tradotto di recente dal Saggiatore come I nomadi, 2015) – una serie di sette articoli di denuncia dei problemi dei migranti bianchi in California firmata da Steinbeck con fotografie di Dorothea Lange per il “San Francisco News” nel 1936. L’autore, originario di Salinas, continuerà a raccogliere informazioni sulle condizioni degli Okies grazie all’amicizia con Thomas Collins (dedicatario del futuro romanzo) che gestisce il Weedpatch Camp allestito dalla Fsa (l’agenzia del New Deal a sostegno dell’agricoltura), abbozzerà un romanzo dal nome The Oklahomans e scriverà L’affaire Lettuceberg, una novella satirica sugli scioperi dei raccoglitori di lattuga di Salinas che finirà per bruciare. Sarà in ultimo coinvolto nell’esperienza di soccorso nei campi di Visalia dove i migranti sono colpiti dell’alluvione del 1938 e dove lavorerà ancora a fianco di Collins.

Furore arriva a suggello di una stagione letteraria in cui il foto-giornalismo di denuncia – militante e istituzionale, finanziato com’è dalle agenzie del New Deal attente a raccogliere testimonianze dirette dei problemi del paese a scopo propagandistico – ha messo a punto una propria grammatica fondata sulla partecipazione sul campo dell’intellettuale-osservatore e sulla volontà (poi spesso tradita, come denuncerà il testo del 1941 di James Agee e Walker Evans Let Us Now Praise Famous Men, Sia lode ora a uomini di fama, il Saggiatore 2013) di dar voce agli spossessati della terra. È una grammatica modellata sui libri foto-documentari come You Have Seen Their Faces(1937) di Erskine Caldwell e Margareth Bourke-White e il già citato An American Exodus; sulle fotografie di Dorothea Lange (si pensi a Migrant Mother) e su film documentari come The Plow that Broke the Plains (“L’aratro che spezzò le pianure”) di Pare Lorentz. Se Lange e Lorentz sono due riferimenti irrinunciabili nel concepimento di Furorela crescente indignazione di Steinbeck nei confronti del trattamento dei migranti culminerà nella “piena” letterale e metaforica del 1938 di cui scriverà così al proprio agente Elizabeth Otis: “Devo andare nelle valli interne. Ci sono cinquemila famiglie che stanno morendo di fame, non affamate ma che stanno letteralmente morendo di fame. Il governo sta cercando di nutrirli (…) con i gruppi fascisti delle utenze e delle banche e dei grandi coltivatori a sabotare la cosa su tutta la linea”. Furore sarà completato in cinque mesi di lavoro febbrile e appassionato. Pur non professando alcun credo politico, è indubbio che il romanzo di Steinbeck restituisca un’immagine positiva dell’operato dell’amministrazione Roosevelt e non è un caso che, a fronte di messe al bando e anatemi da parte di una serie di istituzioni pubbliche e politiche (tra tutti gli Associated Farmers di Kern County, California, e la camera di commercio dello stesso stato), Furore incasserà il pieno appoggio di Eleanor Roosevelt e del presidente stesso.



Non sarà così per i critici letterari, da sempre divisi sulle qualità di Furore e di Steinbeck, un libro e un autore giudicati troppo popolari e “midcult” per essere anche grandi. Ma per un Harold Bloom che affossa Furore come libro “difettoso” capace di raggiungere “popolarità immensa tra i liberal middlebrows” rischiando sempre la catastrofe estetica – salvo poi recuperarlo per l’afflato civile e compassionevole – un Tom Wolfe lo difende come ultimo autore americano capace di raccontare una storia “sporcandosi le mani con la realtà”.

L’importanza di Furore non è però solo morale: è infatti anche la craftsmanship – il mestiere e la maestria – con cui Steinbeck lo scrive e lo compone a farne il romanzo capace di raccontare la grande Depressione attraverso i protagonisti di quella storia o, nelle parole di Ma Joad, “il popolo, la gente che sopravvive a tutto”.


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Di seguito, il film di John Ford tratto dal romanzo :