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sabato 3 febbraio 2018

Saggia decisione del Consiglio di Stato sui corsi universitari svolti soltanto in lingua inglese.

No ai corsi universitari svolti soltanto in lingua inglese, senza italiano: è questa la decisione giuridica che archivia un contrasto tra il Politecnico di Milano e un nutrito gruppo di professori contrari alla riforma deliberata nel 2012, pensata per favorire gli studenti stranieri e quelli italiani nell'apprendimento dell'inglese, ma finita per essere esclusiva al contrario.                                                                                               -----------------------------------------------------------
No ai corsi universitari svolti soltanto in lingua inglese: la decisione del Consiglio di Stato, che ha confermato una precedente pronuncia del Tar della Lombardia, pone termine ad una diatriba durata circa 6 anni tra il Politecnico di Milano e un gruppo nutrito di professori contrari alla riforma deliberata nel 2012. La materia del contendere non era tanto che venisse utilizzata una lingua straniera (sempre l’inglese) per lo svolgimento di corsi di laurea magistrale e di dottorato, quanto che ciò avvenisse in modo esclusivo, con una totale estromissione dell’italiano nello studio delle materie insegnate.
La pronuncia è riferita solo a questa vicenda, ma ha un significato più generale per le argomentazioni svolte, tutte in linea con altra decisione analoga della Corte Costituzionale nel 2017 sempre sulla stessa materia.

Il rapporto tra lingua nazionale e straniera, la tutela dell’identità della nazione rispetto ai processi di internazionalizzazione sociale e culturale, la connessione tra strumento linguistico e materie insegnate: sono questi i temi principali affrontati nelle decisioni, ispirate ad una interpretazione delle norme in conformità dei principi costituzionali su cui è fondata la Repubblica.

Tutto ha inizio nel 2012 quando il Politecnico decide che, a partire dal 2014, tutti gli insegnamenti (lauree magistrali e dottorati) debbano svolgersi solo in lingua inglese dando applicazione a quanto prevede, sull’uso delle lingue straniere, la legge Gelmini del 2010. Contro quella decisione insorge un gruppo di circa 100 professori che propone ricorso al Tar lombardo il quale nel 2013 dà loro ragione. L’Ateneo, supportato dal Ministero, si appella al Consiglio di Stato il quale solleva una questione di legittimità costituzionale delle norme della legge Gelmini.

Mariastella Gelmini
La decisione della Consulta arriva nel 2017. La legge Gelmini sull’uso delle lingue straniere nei nostri atenei non può dirsi incostituzionale, ma deve essere interpretata nel senso che non possa escludere in modo totale l’uso di quella italiana. Del resto era difficile pensare che potesse essere applicata in modo così distorto. Sì dunque all’inglese, ma unitamente a corsi e insegnamenti comunque svolti in lingua italiana. A seguito di questa decisione si giunge all’attuale pronuncia del Consiglio di Stato a conferma della decisione di primo grado: la contestata delibera milanese è definitivamente annullata, intanto però sono già intervenuti cambiamenti di rilievo che destano allarme.
In questi 6 anni, a seguito dell’iniziativa del Politecnico, si è prodotta una modifica sostanziale dell’insegnamento: l’offerta didattica in italiano è costantemente diminuita tanto che tutti i corsi di dottorato sono già svolti in lingua inglese, che su 45 indirizzi magistrali solo 3 sono rimasti in italiano e solo 15 sono bilingui, mentre gli altri sono esclusivamente in inglese; soltanto quelli di laurea triennale sono ancora in italiano.
La delibera era motivata dall’intento di favorire l’internazionalizzazione dell’istituto, dunque per attrarre studenti stranieri, e per favorire l’apprendimento nelle materie scientifiche in cui l’inglese ha larghissima applicazione. Il disegno di attirare studenti dall’estero era certamente lodevole, ma vi era un evidente scarto tra il problema sollevato e la soluzione prescelta, dato che questa comportava la totale espulsione dell’italiano in tutto l’ateneo. Una conseguenza – l’eliminazione della lingua madre da una scuola nazionale – paradossale e incongrua, infatti mai praticata negli istituti stranieri. E soprattutto gravida di ripercussioni e controindicazioni.
Non a caso la proposta sollevò nel 2013 la vibrata protesta di linguisti, storici, scienziati. Fu organizzato un convegno sul tema “Lingua, cultura, libertà”: tra i promotori l’Accademia della Crusca, la Treccani, l’Accademia dei Lincei, la Società Dante Alighieri; relatori come Tullio De Mauro, Dario Fo.
Favorire l’arrivo degli stranieri: era l’altro obiettivo della contestata riforma. Interessante prospettiva, che però era da approfondire. Di quali stranieri si tratta e quali sono le loro esigenze ed aspettative? I “cervelli” che vogliono venire a studiare in Italia non immaginano di farlo in inglese e su testi scritti in questa lingua, ma immergendosi nella storia e nella cultura del paese prescelto, allo scopo di confrontarsi con realtà diverse da quelle dei paesi di origine, anche utilizzandone la lingua. Cosa che accade appunto all’estero dove, per frequentare le scuole, si pretende la conoscenza della lingua straniera. Sarebbe singolare che l’accesso universitario nel nostro paese possa avvenire senza disporre di alcuna conoscenza dell’italiano e utilizzando solo l’inglese. Lo studio in Italia avverrebbe in un contesto culturale di totale estraneità linguistica rispetto al paese ospitante.
insegnante
Poi, aiutare gli italiani, con l’apprendimento dell’inglese, a trovare lavoro all’estero: questo lo scopo ulteriore della riforma. Certamente, la conoscenza della lingua straniera può essere di aiuto nel trovare lavoro in un mondo che si internazionalizza sempre più, ma è desolante la prospettiva di programmare, per i nostri ”cervelli”, soltanto la strada della “fuga all’estero”, come soluzione di vita. Perché formare i giovani (solo) per farli partire? Dovremmo invece favorire la loro permanenza nel paese e affrontare la sfida dell’occupazione con il maggior numero di strumenti, non solo l’inglese, ma anche un buon italiano.
L’uso esclusivo dell’inglese, a prescindere dalle buone intenzioni, si espone ad altre incongruenze. Per esempio, in tema di accesso al mondo universitario (sarebbero danneggiati gli studenti ed anche gli insegnanti che non conoscono l’inglese) e soprattutto  sul versante della qualità dell’insegnamento e della specificità dei suoi contenuti, nelle materie che esprimono al massimo livello la peculiarità dell’ingegno italiano, come in storia dell’arte, nell’architettura, nel diritto, nelle lettere.

Difficile pensare che non vi sia una correlazione tra l’uso delle lingua italiana e la particolarità di queste discipline, rispetto alle quali l’impiego di altre lingue rischia di semplificarne il contenuto e di sminuirne il fascino irresistibile. Proprio per questo motivo sarebbe il caso di ricordare che Galileo Galilei scelse di insegnare in italiano – non nell’inglese del tempo che era il latino – proprio per una maggiore “vicinanza” ai suoi studenti, e al loro contesto sociale.
Pensieri e orientamenti espressi dal mondo della cultura italiana per contrastare il disegno di rendere esclusivo l’uso dell’inglese: del tutto analoghi gli orientamenti elaborati nel 2017 dalla Corte Costituzionale: «L’obiettivo dell’internazionalizzazione deve essere soddisfatto […] senza pregiudicare i principî costituzionali del primato della lingua italiana, della parità nell’accesso all’istruzione universitaria e della libertà d’insegnamento”.
L’esclusività della lingua straniera estromette indiscriminatamente l’idioma ufficiale della Repubblica da interi rami del sapere e comporta un illegittimo sacrificio del principio del “primato della lingua”. Riduce la lingua italiana ad una posizione marginale e subordinata facendo venire meno la funzione che le è propria, quella d’essere «vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale».
Non si tratta soltanto di un semplice orgoglio linguistico, ma di preservare quell’approccio unico e particolare che l’italiano (come ciascuna specifica lingua) è in grado di offrire per la conoscenza di determinate materie, e della storia stessa di questo paese nella originalità della sua dimensione spirituale. La lingua italiana regala risorse espressive di straordinaria efficacia, per la sottigliezza dei concetti, e per la complessità dei ragionamenti. Sa destreggiarsi nel poco spazio, e affrontare l’ignoto. Mescola i generi, muta fisionomia, alterna i toni. Sempre a suo agio tra sponde diverse del pensiero: dal basso all’alto, da destra a sinistra, dal bianco al nero, dalla luce all’oscurità, attraverso l’incertezza dei toni che sfuggono ad ogni definizione. Non di rado raggiungendo le vette straordinarie della mente e dell’animo, vertici di lucidità e di chiarezza, di disperazione o di felicità: tessere uniche della spirale che avvolge la vita di ciascuno.
La lingua italiana è un patrimonio da conservare e valorizzare, non da trascurare. Il linguaggio sia orale che scritto mantiene un ruolo essenziale nel processo formativo a tutti i livelli e in tutti i gradi perché è strettamente connesso allo sviluppo cognitivo della persona. La lingua è un alimento imprescindibile della mente, e dunque di quella particolare modalità di di apprendimento che si forma in una comunità identificandone il carattere unico. Conoscere il mondo, studiarne i fenomeni, sviluppare dei ragionamenti, attraverso lo strumento linguistico. Farlo con quella particolare strumentazione, che è data da una lingua specifica, dall’italiano appunto, distingue gli uni dagli altri senza contrapporli, favorendone la convivenza in una comunità più articolata; rende prezioso e perciò insostituibile il contributo di ciascuno, racconta le radici e la storia di un intero popolo e dei singoli.